Gen 28, 2021 / by Lorenzo Moro / In Blog
Una volta frequentavo una ragazza – ah i tempi da studente a Bologna, nostalgy take me away (non fa rima ma siamo in un sito di marketing e comunicazione, gli inglesismi sono obbligatori, eh) – che ci metteva pomeriggi interi per scrivere stupide e banali email al professore di turno. Quando riusciva a superare l’incredibile ostacolo del “Prof. o Professore???”
Una volta decisa la formula migliore con cui iniziare l’email, il tripudio di insicurezza, panico e coseacasoTM proseguiva con:
“Prof. taldeitali, buonaser..” No no, e se poi la legge di giorno?
Canc canc canc
“Prof taldeitali, salve” No, no, mia mamma dice che Salve è da bifolchi
Canc can canc
3 ore dopo (e due miei tentativi di farla finita)
“Prof. Taldeitali, i miei ossequi, sono una sua studentessa, Le scrivevo per chiederLe blablabla cose inutili cose inutili”
Risposta del prof: “salve, si.”
Tre ore per chiedere una baggianata ad un professore che buona grazia se ha letto quel che c’era scritto e ha risposto con un saluto da bifolchi (dicono) seguito da un monosillabo. Io all’epoca impazzivo. Non riuscivo a capire perché non andasse al sodo. Glielo dicevo anche “vè che non è che se gli dici buonasera e la apre di giorno ti risponde di no ad una domanda la cui risposta è sì. Non cambia nulla, basta che sei educata – non, ciao bro, confermi l’esame per doma? YO – e sei a posto, non è mica il megadirettore galattico di stocazzo.” Ma no, non ci sono mai riuscito. Giorni e giorni per scrivere email inutili, chiaro sintomo e preambolo di un incontro che avrei fatto qualche anno più tardi, una volta lasciate le lussuriose aule di Via Zamboni: l’aziendalese.
Non era lei il problema, non erano nemmeno quelle email. Ero io, che allora – come oggi – non capivo il senso di parlare al prossimo in un gergo verboso, arzigogolato, inutilmente ossequioso, melenso, noioso e completamente privo di ogni personalità. Un gergo che – sia ben chiaro – lascia intendere all’interlocutore la vostra posizione (prona? No dai) di inferiorità. Poi ho – ahimè, tocca a tutti prima o poi – iniziato a lavorare in azienda, e anche io sono stato preso dentro un mondo di distinti saluti porti con grazia e dopo un a capo, di inglesismi buttati a caso, di leaderss, visionzz, business planss, callss a neverending e di paroloni scritti per nascondere frasi senza alcun senso logico e chi più ne ha, beh, più ne metta.
Iniziò così il mio scontro con la famigerata ETICHETTA, roba che cultura dei Samurai spostati (che poi i Samurai, per quanto disciplinati almeno erano fighi, meglio sventolare una Katana che un biglietto da visit… pardon, una business cardz).
Dietro a email, incontri di team building al bowling e altre robe simili si nasconde la vera insidia di un modus operandi – lo scrivere in aziendalese – che spesso trascende nel modus pensandi o, peggio ancora, vivendi. Nelle nostre strazianti vite di impiegati chiusi dentro uffici dai quali vorremmo spesso fuggire urlando e circondati da colleghi con cui vorremmo inscenare un remake di American Psycho (interpretando il protagonista, grazie) e nei quali passiamo ore, giorni, mesi, anni e vite a schivare colpe che volano ad altezza ginocchia, finiamo per diventare bambini (in corpi di adulti) colpevoli anche quando non lo siamo, sempre sul “chi va là”, costantemente pronti a passare dal passivo all’aggressivo al verso di “non sono stato io!”, “non è colpa mia”, abituati, sottoposti, piegati da un modo di vivere, parlare e pensare che da una semplice mail è diventato la realtà di tutti i giorni.
Noi siamo quel che pensiamo: se possediamo un vocabolario di 30 parole (e non è una cosa rara, ahimè), sarà molto difficile che riusciremo a costruire un pensiero molto più complesso e articolato di quanto queste trenta parole ci permettono. Annichiliti da una routine quotidiana disumanizzante chiusi nel nostro ufficio, ogni giorno uguale a quello precedente e, mi spiace, probabilmente uguale anche a quello successivo a meno di un lavoro da svolgersi asap, l’aziendalese, con la sua ipocrisia, crea una forma mentis di sottoposti, piegati in inchini, ossequi e distinti saluti al managersss di turno, vero re di questa realtà.
La realtà di tutte le mattine, fermi a quel semaforo, nel freddo della nostra auto, con lo sguardo perso nel vuoto, magari pensando a quando da bimbi ci eravamo ripromessi che da grandi avremmo fatto i piloti d’aereo, il cuoco, il medico e invece, anche oggi, passeremo otto ore a porgere
I nostri cordiali saluti.
Poi l’aziendalese è diventato di moda nelle campagne marketing, sfruttato da aziende più o meno trendy per darsi un tono e suscitando nell’utente il senso di inferiorità necessario a generare il famigerato “shut up and take my money”. Da qualche anno, in un paese immobilizzato dalla burocrazia – e sul burocratese ci sarebbe da scrivere per ore – opuscoli, pubblicità e campagne marketing sono diventati infiniti spot basati su soluzioni narrative che spesso sfociano nel grottesco. E poi, meraviglioso, fra aziende centenarie (ma comunque giovani) leader nel loro settore, il mondo del marketing è stato colpito da una pioggia di punti messi a caso che davvero, che senso hanno? Sono davvero belli questi imperativi? Che cosa vogliono dirmi?
Lorenzo Moro
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